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Pena di morte in Arabia:«Una ogni tre giorni»
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Pena di morte in Arabia:«Una ogni tre giorni»
Metà dei condannati sono lavoratori stranieri. Appello di Amnesty: «Moratoria subito»
A lanciare il nuovo allarme è Amnesty International, che oggi pubblica un drammatico rapporto da cui emerge non solo che il livello di esecuzioni in Arabia Saudita resta altissimo, oltre due alla settimana in media, una ogni tre giorni: e infatti al 31 agosto eravamo già a 78 (158 nel 2007, record mondiale per numero di abitanti, terzo posto in assoluto dopo Cina e Iran). Ma che quasi la metà delle condanne eseguite nel Regno wahabita riguarda stranieri.
«Una percentuale del tutto sproporzionata — dice Malcolm Smart, direttore per il Medio Oriente di Amnesty —. Speravamo che l'impegno di Riad sul fronte dei diritti umani portasse alla fine o a un forte calo delle condanne e invece sono cresciute. Urge una moratoria». Non è una novità in nessun Paese del mondo (o almeno in quelli dove la pena di morte resiste, 62 sulla carta, meno in realtà) che a finire «giustiziati» siano soprattutto i più poveri e emarginati. Ma nel caso saudita questo è particolarmente vero: imputati che non parlano nemmeno l'arabo, senza avvocato, che restano all'oscuro della loro sorte (a volte) fino all'esecuzione.
Nel Regno, su 27 milioni di abitanti almeno 8 milioni sono stranieri. «Sia loro che i sauditi messi a morte in Arabia non hanno denaro nè contano conoscenze tra persone influenti che potrebbero intervenire in loro favore, come autorità di governo o capi tribù; circostanze entrambe decisive per ottenere la grazia», denuncia ancora Smart. Che poi sottolinea come i processi celebrati nel Paese in base alla sola Sharia siano spesso «segreti e ampiamente iniqui», mentre i giudici «applicano discrezionalmente la pena capitale anche per reati non violenti». Così, a scorrere i giornali che riportano gli ultimi casi, troviamo il barbiere turco Sabri Bogday residente a Gedda e condannato a morte per blasfemia: secondo due testimoni aveva spergiurato nel nome di Allah e del Profeta, non è dato sapere se in arabo o in turco. O la bambinaia dello Sri Lanka Rizana Nafeek, che parla solo tamil e minorenne, destinata ad essere decapitata per «aver fatto morire» un bimbo saudita; chissà in quali circostanze, visto che la sua parola (tradotta) non conta nulla di fronte a quella della «padrona». Ci sono state mobilitazioni internazionali per Rizana, ogni tanto si parla anche nel Regno di questa ondata di condanne a morte. Ma l'appello di Amnesty a Riad («basta esecuzioni, è arrivato il momento che rispettiate il diritto internazionale») sembra destinato per il momento a restare senza risposte.
www.corriere.it
A lanciare il nuovo allarme è Amnesty International, che oggi pubblica un drammatico rapporto da cui emerge non solo che il livello di esecuzioni in Arabia Saudita resta altissimo, oltre due alla settimana in media, una ogni tre giorni: e infatti al 31 agosto eravamo già a 78 (158 nel 2007, record mondiale per numero di abitanti, terzo posto in assoluto dopo Cina e Iran). Ma che quasi la metà delle condanne eseguite nel Regno wahabita riguarda stranieri.
«Una percentuale del tutto sproporzionata — dice Malcolm Smart, direttore per il Medio Oriente di Amnesty —. Speravamo che l'impegno di Riad sul fronte dei diritti umani portasse alla fine o a un forte calo delle condanne e invece sono cresciute. Urge una moratoria». Non è una novità in nessun Paese del mondo (o almeno in quelli dove la pena di morte resiste, 62 sulla carta, meno in realtà) che a finire «giustiziati» siano soprattutto i più poveri e emarginati. Ma nel caso saudita questo è particolarmente vero: imputati che non parlano nemmeno l'arabo, senza avvocato, che restano all'oscuro della loro sorte (a volte) fino all'esecuzione.
Nel Regno, su 27 milioni di abitanti almeno 8 milioni sono stranieri. «Sia loro che i sauditi messi a morte in Arabia non hanno denaro nè contano conoscenze tra persone influenti che potrebbero intervenire in loro favore, come autorità di governo o capi tribù; circostanze entrambe decisive per ottenere la grazia», denuncia ancora Smart. Che poi sottolinea come i processi celebrati nel Paese in base alla sola Sharia siano spesso «segreti e ampiamente iniqui», mentre i giudici «applicano discrezionalmente la pena capitale anche per reati non violenti». Così, a scorrere i giornali che riportano gli ultimi casi, troviamo il barbiere turco Sabri Bogday residente a Gedda e condannato a morte per blasfemia: secondo due testimoni aveva spergiurato nel nome di Allah e del Profeta, non è dato sapere se in arabo o in turco. O la bambinaia dello Sri Lanka Rizana Nafeek, che parla solo tamil e minorenne, destinata ad essere decapitata per «aver fatto morire» un bimbo saudita; chissà in quali circostanze, visto che la sua parola (tradotta) non conta nulla di fronte a quella della «padrona». Ci sono state mobilitazioni internazionali per Rizana, ogni tanto si parla anche nel Regno di questa ondata di condanne a morte. Ma l'appello di Amnesty a Riad («basta esecuzioni, è arrivato il momento che rispettiate il diritto internazionale») sembra destinato per il momento a restare senza risposte.
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