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Messaggio Da bibi Mer 24 Set 2008 - 20:16

Le famiglie ormai separano il proprio livello dei consumi, delle spese e degli investimenti dal reddito, e le banche, da quando i tassi di interesse si sono ridotti, sono più propense a concedere prestiti non solo per l'acquisto di immobili, ma anche per finanziare beni di consumo durevole e, addirittura il consumo corrente delle famiglie stesse. L'indebitamento è divenuto, cosi, una prassi consolidata per il 98% della popolazione. Chi possiede un reddito adeguato si rivolge alle banche, altri devono ricorrere a intermediari finanziari particolarmente esosi e agli usurai.
Negli Stati Uniti i prezzi delle case, fino alla fine del 2008, caleranno di una percentuale che oscilla fra il 14 e il 20%. Il dollaro vale il 25% di meno rispetto al 2002: il maggior deprezzamento dal 1944.
La fiducia nelle istituzioni finanziarie, soprattutto nelle banche, è ai minimi storici in seguito alla crisi generata dalla vicenda dei mutui subprime; lo stesso evento che ha causato il crollo del mercato immobiliare.
Sia i dati riguardanti l'occupazione sia quelli riguardanti la produzione indicano un rallentamento.
Questi e molti altri fattori sembrano essere alla radice della crisi dell'economia statunitense tanto da spingere a parlare apertamente di recessione anche il Fondo monetario internazionale (Fmi) che, in genere, è molto cauto nel dare questi annunci.
Gli analisti sono tutti concordi: è la peggiore crisi dai tempi della grande depressione.
I dati sono poco incoraggianti. Le aziende ritoccano costantemente al ribasso le previsioni riguardanti gli utili attesi: da quando si è cominciato a parlare di recessione sono stati corretti quasi ogni settimana e sempre in negativo.
Il tasso di disoccupazione aumenta, le società assumono ed investono con molta cautela, il numero delle nuove aziende è calato drasticamente: nei primi tre mesi del 2008 si sono quotate in borsa solo cinque società, negli ultimi tre mesi dello scorso anno erano state trentuno.
A non far sperare niente di buono ci si mettono anche i dati riguardanti le scorte di petrolio.
E' proprio quello dell'inflazione e del deprezzamento del dollaro uno dei nodi centrali sui quali si gioca il futuro dell'economia statunitense.
La Federal reserve è costretta a tenere basso il costo del denaro, in modo da assicurare liquidità alle banche in crisi, Questa politica, però, non contrasta l'inflazione, anzi la aggrava portando anche ad un costante deprezzamento del dollaro rispetto all'euro ed allo yen. Il dollaro non è più una moneta stabile e questo potrebbe inficiare il suo ruolo di moneta usata per il commercio di beni importanti come il petrolio, l'oro e molti altri.
Le radici della crisi statunitense, però, non sono solo sui mercati finanziari ma anche nel settore della produzione reale. Anni di delocalizzazione non potevano che portare ad un calo sia della produzione sia dell'occupazione. Fenomeno che si è aggravato da quando molte aziende hanno deciso di trasferire fuori dal paese non solo la produzione materiale ma anche quella immateriale, quella legata alla progettazione, all'area amministrativa, allo sviluppo del prodotto.
Altro fattore di crisi è poi rappresentato dal fatto che i consumi sono sostenuti più che dal reddito proveniente dai salari, dal debito. Le famiglie statunitensi, infatti, si indebitano sempre più anche per i consumi correnti ed hanno sempre meno risorse a disposizione per pagare i propri debiti. Questo non fa che alimentare la sfiducia nei confronti delle banche.
Il problema è anche rappresentato dal fatto che gli Stati uniti consumano molto più di quanto producono e sono il paese più indebitato al mondo, soprattutto nei confronti della Cina.
bibi
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